Boris Pasternàk, Miracolo
(da Il dottor Zivago, 1957)
Andava da Betania a Gerusalemme,
oppresso anzi tempo dalla tristezza dei presentimenti.
Sull’erta, un cespuglio riarso;
fermo, lì su una capanna, il fumo,
e l’aria infocata e immobili i giunchi
e assoluta la calma del Mar Morto.
E, in un’amarezza più forte di quella del mare,
andava con una piccola schiera di nuvole
per la strada polverosa verso un qualche alloggio
in città, a una riunione di discepoli.
E così immerso nelle sue riflessioni,
che il campo per la melanconia prese a odorare d’assenzio.
Tutto taceva. Soltanto lui là in mezzo.
E la contrada giaceva inerte in un deliquio.
Tutto si confondeva: il calore e il deserto,
e le lucertole e le fonti e i torrenti.
Un fico si ergeva lì dappresso
senza neppure un frutto, solo rami e foglie.
E lui gli disse: "A cosa servi?
Che gioia m’offre la tua aridità?
Io ho sete e fame, e tu sei un fiore infecondo,
e l’incontro con te è più squallido che col granito.
Come è offensiva la tua sterilità!
Resta così, dunque, sino alla fine degli anni."
Per il legno passò il fremito della maledizione
come la scintilla del lampo nel parafulmine.
E il fico divenne cenere all’istante.
Avessero avuto allora un attimo di libertà
le foglie, i rami, le radici e il tronco,
le leggi della natura sarebbero forse intervenute.
Ma un miracolo è un miracolo e il miracolo è Dio.
Quando siamo smarriti, allora, in preda alla confusione,
istantaneo ci coglie alla sprovvista.